sabato 2 giugno 2007

Lost in translation - Found in translation


“La contraddizione, che tanto sconcerta il modo di pensare ordinario, deriva dal fatto che dobbiamo usare il linguaggio per comunicare la nostra esperienza interiore, la quale per sua stessa natura trascende le possibilità della lingua”.

D.T.Suzuki

Parliamo tanto, ogni giorno, parliamo troppo, parliamo di tutto e parliamo di niente. Esprimiamo opinioni, idee, trasferiamo concetti, da persona a persona. Ci piace cercare l’originalità in quello che diciamo e inseguiamo nuove forme, o vecchie forme in disuso, per esprimere qualcosa di comune in modo originale. E allora ci esercitiamo, proviamo, raccontiamo, giudichiamo, commentiamo. Parliamo degli altri, parliamo della storia, della guerra, di politica, dell’amore.

Parliamo di noi e di quello che ci sta attorno, raccontiamo quello che ci succede per definirlo nella sfera della nostra esistenza, gli diamo un nome, lo incorniciamo e gli assegniamo delle coordinate ben precise, gli diamo un significato e da lì non ci si muove: evento catalogato con categorie tassonomiche di data, luogo, persone coinvolte, motivazione, effetto e… significato all’interno della nostra vita. E così ci sentiamo tranquilli: una volta dato un nome a quello che ci succede, una volta che lo possiamo rendere comprensibile agli altri e a noi stessi, allora tutto ci sembra al suo posto, in ordine. Nonostante quello che ci succede o facciamo succedere possa essere talvolta illogico, paradossale, assurdo, parlandone troviamo il modo per renderlo logico: basta aggiungere le categorie di definizione “eccezione”, “cazzata”, “parentesi”, “pazzia” e tutto torna ad avere un posto ben preciso, tutto torna ad essere logicamente ordinato e comprensibile, a volte giustificabile, a volte ammirevole, a volte deplorevole, ma sempre logico, sempre comprensibile.

Così, con le parole costruiamo e riconosciamo delle categorie mentali e attraverso queste categorie mentali comunichiamo, ci raccontiamo, ascoltiamo e ci creiamo delle opinioni, sempre logiche, giuste o sbagliate che siano. Così, parlando la nostra lingua ci riconosciamo e ci ritroviamo, quasi sempre, nelle coordinate fisse delle espressioni, delle parole, dei toni: parlando e pensando nella stessa lingua condividiamo, o quanto meno capiamo immediatamente le categorie usate per catalogare i fatti dell’esistenza e ci sentiamo in qualche modo sicuri, protetti all’interno di un meccanismo che capiamo, che ci è familiare e che ci permette di dare un nome e un posto a quello che ci succede.

Ma cosa succede quando non parliamo la nostra lingua? Cosa succede quando siamo limitati nell’espressione? Cosa succede quando abbiamo di fronte qualcuno che ha delle coordinate mentali e linguistiche diverse dalle nostre, quando le categorie del linguaggio in cui riconosciamo e attraverso cui cataloghiamo i fatti dell’esistenza cadono per una semplice ragione linguistica? Cosa succede quando si crede di non poter capire fino in fondo perché non si parla la stessa lingua?

Quando parliamo o impariamo a parlare una lingua nuova – soprattutto se molto diversa dalla nostra – riconosciamo e riscopriamo nelle parole il loro significato più profondo, quello che per noi non è inflazionato da un uso eccessivo di parole troppo familiari. E quando questo succede scopriamo che le parole più semplici possono esprimere quello che davvero sentiamo: a volte un colore assume un significato assoluto, a volte parole come occhi, fiore, cielo, acqua, vita bastano per ritrovare l’immagine più profonda che abbiamo di queste cose, dentro di noi. E tutto succede senza i mille giri di parole (quelli che io sto usando in questo momento) che ormai siamo abituati, troppo abituati a dover fare per comunicare qualcosa che in realtà è semplicissimo – o molto complesso.

E così capita a volte, con un po’ di fortuna, di incontrare persone con cui non è possibile fare “ giri di parole”, ma con cui è invece possibile parlarsi, ascoltarsi e capirsi nel modo più semplice e diretto, dicendo poche parole, esprimendo pochi concetti che hanno però un valore più profondo, più assoluto. Altre volte, con un pizzico in più di fortuna, ci accorgiamo invece che la vera comunicazione non avviene a parole, ma a gesti, sguardi e soprattutto grazie alla valorizzazione di piccole azioni che, come i colori, assumono un significato per noi essenziale. E una volta trovato questo significato essenziale, non abbiamo più bisogno di tradurlo in parole perché a quel punto l’abbiamo già capito: sentendolo, intuendolo, vivendolo.

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